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LOUISE BOURGEOIS: TRA FILO E MEMORIA, LA STORIA DI UNA BAMBINA ANTICA

| di Eleonora Giglione |

“Non sono quello che sono, sono quello che faccio con le mie mani” Louise Bourgeois

“Cloth Lullaby – The Woven Life of Louise Bourgeois” è un libro illustrato per bambini e adulti. Eppure, bambina e adulta al tempo stesso è anche l’anima di cui racconta: Louise Bourgeois, tessitrice di memoria e materia, di fili e pensieri, di ferite e rimarginazioni.

Accogliere queste pagine come spunto per narrare una figura tanto complessa e intensa ha un senso profondo. La stoffa e la tessitura non sono solo il cuore della sua arte, ma il ritmo stesso del suo pensiero: a tratti sottile e fluido come un ruscello che si insinua tra le pietre, a tratti impetuoso e indomabile come un fiume in piena.

E poi gli argini, quei pensieri sedimentati, pesanti come macigni, che contengono il caos e danno forma alla tempesta emotiva. E le parole, appuntate senza tregua, impresse come impronte sulla sabbia del tempo. Parole che riaffiorano, nodi di un passato che torna e si intreccia con il presente. Quelle pronunciate dai genitori, capaci di costruire e distruggere, di ferire e curare, di svanire nell’oblio solo per riemergere, trasformate, nel flusso incessante della sua creazione.

Un’epifania continua, un filo che non si spezza, ma si reinventa in ogni opera, nell’arco di decenni, in ogni forma che la sua arte ha saputo accogliere e rivelare.

Louise afferma che il tema nasce sempre dall’inconscio, ma la forma deve essere diretta, pura, essenziale. Anche la storia narrata nel libro prende vita da un fiume, quello che scorre accanto alla casa della sua infanzia, un corso d’acqua che incide la sua biografia come un solco nella terra. I suoi argini, come quelli del pensiero e della memoria, sono margini fragili ma necessari, capaci di contenere il flusso impetuoso delle emozioni.

La sua pratica artistica diventa allora una diga sottile, un ordito che trattiene e trasforma, un confine poroso che raccoglie e restituisce la materia incandescente del sentire. Perché il corpo è troppo piccolo per emozioni tanto vaste, troppo esile per reggere il peso dell’invisibile. Così dice Louise. E così, per tutta la vita, prova a dare forma all’indomabile.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

Nata a Parigi il 25 dicembre del 1911, Louise Bourgeois ha assunto, lentamente ma progressivamente, un ruolo fondamentale nel mondo dell’arte contemporanea. La sua carriera abbraccia sette decadi, con una produzione che si intensifica e incrementa soprattutto negli ultimi trent’anni della sua longeva esistenza, cioè a partire dagli anni ’80 quando l’artista è già ultra settantenne. È infatti solo nel 1982 che con una retrospettiva del MOMA ottiene riconoscimento a livello globale, una fama mai avuta in precedenza. Considerata una tra le più eminenti artiste del XX secolo, è divenuta simbolo del pensiero femminista, pur non avendolo posto coscientemente come obiettivo del suo lavoro. Louise viene ritenuta infatti un punto di riferimento essenziale in un orizzonte artistico ancora prevalentemente maschile. Posta più volte di fronte alla questione da numerosi interlocutori, ribadisce di pensarsi come artista prima che come femminista, e che i temi affrontati nel suo lavoro sono pre-gender, cioè elementi che appartengono peculiarmente a ogni essere umano. A questo proposito cita la gelosia, fulcro della sua produzione, come sentimento che non appartiene esclusivamente a un solo genere, ma coinvolge indistintamente tutti gli individui. Ciò che le preme sottolineare in più occasioni è che gli artisti rimangono sempre sostanzialmente bambini, o perché rifiutano o perché sono incapaci di crescere, riaffermando dunque il suo essersi concentrata sul modo di sentire e di esprimersi proprio della dimensione infantile, più puro, diretto, non filtrato: “Un’opera d’arte non deve essere spiegata, se non ti tocca, ho fallito”.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

La sua vita è stata però indubbiamente indirizzata da subito verso una valorizzazione della libertà e dell’affermazione individuale, cosa che, per una bambina o ragazza cresciuta negli anni a cavallo tra le due guerre, non era sicuramente scontata. Il merito, oltre alla sua innata risolutezza e costanza, va in parte alla sua agiata condizione sociale, ma soprattutto alla determinazione della madre: “Tu, figlia mia, non maneggerai mai un ago”, questa una delle frasi materne che Louise ci riporta, “nel suo atteggiamento femminista, mia madre era virulenta su questo punto”, prosegue.

L’azienda tessile di famiglia si occupa infatti di restauro di tessuti e la frase della madre fa riferimento ad una connotazione negativa del lavoro al telaio, poiché auspicava per la figlia a una carriera indipendente, che non dovesse limitarsi all’umile manovalanza di una “craft-woman”. L’ago quindi, nell’ottica d’ispirazione femminista della madre, viene visto come simbolo della sottomissione e del servilismo della donna dell’epoca. Filati e intrecci, nello stesso tempo, sono parte integrante della quotidianità della maman, tessitrice di professione, e dunque l’arte tessile entrerà a far parte in modo spontaneo anche della ricerca artistica della figlia. Più volte Louise, parlando dell’attività familiare e dei suoi personali interventi, ribadirà di non essersi mai concretamente seduta al telaio.

Bourgeois studia prima filosofia, poi matematica, ma dopo la morte della madre nel 1932, abbandona la matematica e inizia a studiare arte. Nel 1938 si trasferirà negli Stati Uniti,  dopo essersi sposata con Robert Goldwater, storico dell’arte con cui avrà negli anni successivi tre figli. Dopo l’iniziale accostamento all’astrattismo pittorico americano, contemporaneamente all’amicizia e frequentazione con personaggi come Duchamp, Le Corbusier, Pollock, Rothko, la sua ricerca si evolverà in ambito scultoreo e installativo, utilizzando di volta in volta materiali e tecniche differenti. Il nucleo tematico attorno a cui la sua intera produzione cresce e si espande è senza dubbio autobiografico, principalmente coincide con la dimensione dell’infanzia, cui fanno da corollario essenziale le figure genitoriali, su cui alternativamente si concentra: quella del padre prima e, negli ultimi 15 anni di lavori in particolare, quella della madre. Tra gli elementi ricorrenti troviamo la casa, la forma della spirale, le parti del corpo, i ragni, gli ambienti domestici, gli abiti, i tessuti, le stanze, gli specchi e le relazioni tra le persone.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

“La mia infanzia non ha mai perso la sua magia. Non ha mai perso il suo mistero. Non ha mai perso il suo dramma.”

L’opera della Bourgeois, vista nella sua complessa totalità, mantiene infatti una semplicità di fondo, e, probabilmente per questo, risulta così universalmente d’impatto: il drama di cui parla fa riferimento infatti alla dimensione traumatica vissuta da bambina a causa del comportamento del padre. Louise non gli perdonerà mai il tradimento della madre, durato una decina d’anni, con quella che doveva essere la sua insegnante d’inglese e governante, una donna che quindi viveva in casa, in famiglia, oltre a quello che dall’artista viene vissuto come un vero e proprio abbandono, quando il padre si allontana da loro sia per viaggi di lavoro, sia per andare in guerra. A proposito dell’amante del padre dice: “Mi ha trasformato in una bestia selvaggia”. È come se da quel momento, dall’interiorizzazione di quel trauma, la sua continua pratica artistica del “provare a fare-fallire-rifare” fosse divenuta l’unico modo per tenere sotto controllo le emozioni dirompenti e dolorose.

L’arte è garanzia di sanità mentale”, ripete spesso Louise.

Ascoltando le parole di Jerry Gorovoy, suo storico assistente, risulta evidente che il grande controllo che la Bourgeois riusciva a mantenere nel suo lavoro quotidiano, fosse essenzialmente dovuto all’autodisciplina intrinseca alla pratica artistica, che per l’artista fungeva da vera e propria auto-terapia e senza la quale si sarebbe probabilmente abbandonata del tutto alla dimensione del passato, del ricordo, al rancore, alle paure, agli scatti d’ira infantili, al dolore e alla gelosia, radicati in lei sin dai primi anni di vita: l’arte è ciò che le permette di non cedere alla follia.

Parlando del padre, con cui aveva indubbiamente un rapporto complesso, Louise menziona spesso il  fatto che avrebbe preferito un figlio maschio. A questo proposito ricorda il suo umorismo caustico, la derisione crudele nelle occasioni di convivio familiare (celebre l’episodio del mandarino), il fatto che, se fosse stato per lui, lei avrebbe dovuto sposarsi, essere una buona moglie e, letteralmente: “Be off his hands”.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

Amei Wallach, co-regista e co-produttrice assieme a Marion Cajori (scomparsa nel 2006), del documentario “Louise Bourgeois: The Spider, The Mistress, The Tangerine” (2008), si riferisce all’artista come una figura sicuramente solitaria, a tratti burbera, costantemente immersa nelle memorie del passato, e che permette alle due registe di avvicinarla solo in virtù del fatto che si stabilisce tra loro un legame di sostanziale fiducia. Le riprese del documentario si sono svolte per circa una decina d’anni (1993-2004), un periodo nel quale la Wallach dice di realizzare con chiarezza che, solo arte e follia consentono quel tipo di accesso alla dimensione inconscia. Ribadisce più volte che a Louise interessa il processo creativo, non il risultato. Si concentra sul percorso catartico del dare forma alle opere, non sull’oggetto a cui si arriva. Questo infatti la porta costantemente a voler distruggere parte delle opere che produce, subito dopo averle concluse, in alcuni casi rendendo necessario l’intervento del suo assistente o di suo figlio per evitare che i suoi lavori vengano danneggiati irrimediabilmente. Talvolta non vede le proprie opere finite, riporta la Wallach, come nel caso delle opere monumentali, che elabora ma non vede nel loro ultimo stadio. Inoltre, emblematico il fatto che non partecipasse quasi mai alle inaugurazioni delle proprie mostre. Negli ultimi anni Louise non si reca più nel suo studio di Brooklyn per lavorare, e così Wallach e Cajori la raggiungono a casa per filmarla, spesso con il suo rifiuto di farsi inquadrare in volto. Per questo motivo molte scene del documentario riguardano esclusivamente le mani dell’artista mentre lavora.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

IL RAGNO

L’idea tessile del rammendo, del restauro, del riparare, che rimane a Louise Bourgeois dall’attività della madre e dell’azienda familiare, si tradurrà in modo evidente in una simbologia ricorrente in molte opere, sintetizzata spesso come cura, protezione, self-healing. In quest’ottica risulta centrale la figura del ragno, che viene elaborata nelle sue opere ad oggi più popolari. L’aracnide inizia ad essere rappresentato su carta sin dagli anni ’40, ma è solo dalla metà degli anni ’90 che la produzione scultorea della Bourgeois si focalizzerà in modo importante su questo soggetto, portandolo sino alle dimensioni monumentali che gran parte del pubblico mondiale riconosce. Nonostante l’apparente aspetto alieno di queste gigantesche sculture, che sembrano uscire da un film distopico di fantascienza, il ragno per Louise è principalmente il simbolo della madre, tessitrice, dunque figura benevola, protettrice, paziente. È spesso rappresentato anche con una sacca di uova in rete metallica e assume dimensioni gigantesche, “Le mie emozioni sono inadeguate alla mia dimensione, le mie emozioni sono i miei demoni”. Il ragno con le sue zampe delimita uno spazio in cui si può e si deve entrare, uno spazio sicuro: “Sono intelligenti e protettivi”, dice Louise a tal proposito, “Uccidono le zanzare”. Al di là della figura materna, il ragno rappresenta chiaramente anche la sua pratica artistica, come nota il suo assistente Jerry Gorovoy, perché la ragnatela emerge dal suo corpo, proprio come le sculture emergono da Louise. La corrispondenza con la sua pratica si riflette nella postura irregolare di un animale in perpetuo movimento: nell’evoluzione scultorea di Bourgeois, le zampe del ragno sono sempre meno statiche e assumono pose via via più dinamiche.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

LA SPIRALE

Il segno della spirale ritorna in molte opere, dal disegno alla scultura con vari materiali, tra cui il tessile, fino all’installazione. Per Louise questa figura è simbolo di controllo e ordine, deriva da una torsione, dalle spolette di filati e lane, certamente, ma anche dal torcere la stoffa, una gestualità recuperata dall’infanzia quando al fiume vicino all’atelier di famiglia, lavava i tessuti per dare il suo contributo. Dallo strizzare i panni dopo averli sciacquati, dalla torsione per far fuoriuscire l’acqua in eccesso, da questo gesto semplice ma forte, l’artista estrae l’importanza del dover “buttare fuori”, esprimere. Louise riferisce anche di aver sognato che l’amante del padre soffocasse in una spirale, e così anche in questo simbolo ritroviamo tutta la tragicità del trauma, del dolore e del rancore della piccola nei confronti del padre e di ciò che ha indelebilmente segnato la sua infanzia e tutta la sua esistenza. Per Bourgeois una spirale è dunque un tentativo di dominare il caos ma rischia sempre di sfuggire di mano, di sciogliersi con un movimento rapido, vorticoso, centrifugo e di andare fuori controllo.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

LE CELLULE

“Gli oggetti nelle Cellule sono fragili. Il fatto che nella maggior parte dei casi non sia possibile entrarvi ha a che fare con la fragilità degli interni. Questo è un problema quando vengono mostrate al pubblico. Vorrei che le persone entrassero nelle Cellule.” 

Le Cellule, realizzate nell’ultima fase della sua vita, sono installazioni raccolte, delimitate da elementi d’arredo o sbarre metalliche, e contengono oggetti fragili, spesso di vetro, specchio o tessuto, come abiti appartenenti a lei e alla madre, ricreando spazi domestici, stanze, ambienti chiusi ma, nell’idea dell’artista, accessibili, in cui si custodisce la fragilità.

In una delle ultime opere, appartenente alla serie The Cells, The Last Climb (2008), Louise sembra forse giungere ad una sorta di pacificazione con il drama sopra menzionato. Sembra infatti che il dolore sintetizzato dalla forma di spirale, sia stato in qualche modo portato ad un’evoluzione. Qui infatti vediamo una scala dalla forma di spirale che sembra portare fuori, verso l’alto, un emergere dallo spazio delimitato della Cell. Questa particolare installazione sembra suggerire l’ascensione, forse un innalzamento, una risoluzione del trauma subito.

LO SPECCHIO

Gli specchi abitano spesso le opere di Louise Bourgeois e la loro presenza ricorre come una testimonianza silenziosa all’interno della serie Cells. Alcuni sono rivolti verso l’esterno, per incontrare lo sguardo di un osservatore, mentre altri si rivolgono verso l’interno, riflettendo gli spazi intimi che l’artista ricostruisce meticolosamente. Louise sottolinea più volte che, al di là della fragilità intrinseca dell’oggetto stesso, lo specchio non è per lei un simbolo di vanità, ma piuttosto un mezzo di accettazione di sé. Parla di aver a lungo fuggito il proprio riflesso, di una vita passata a evitare la propria immagine, finché, con l’età, non abbraccia finalmente la necessità di riconciliarsi. Accogliere la propria figura, fare pace con essa, non è solo un atto di riconoscimento, ma un atto fondamentale di amicizia con se stessi.

Particolare del libro Cloth Lullaby – the woven life of Louise Bourgeois, Novesky/Arsenault, Abrams Books for Young Readers, Illustrated edition (New York, 2016)

Louise Bourgeois scrive, prende appunti per tutta la sua vita, durante le notti di insonnia o le veglie in cui riflette, concettualizza, traduce in opere. Molti di questi scritti sono oggi raccolti in archivi o talvolta parzialmente esposti. Alcune frasi in particolare sono state evidenziate, alcune di fondamentale importanza per la comprensione dell’artista, della bambina, della donna Louise. Una di queste frasi che risale a quando Bourgeois ha 47 anni, viene riportata anche da Amei Wallach, intervistata a proposito del documentario del 2008, ed è una frase piuttosto significativa: “Ho fallito come moglie, come donna, come madre, come padrona di casa, come artista, come imprenditrice, come amica, come figlia, come sorella, non ho fallito come ricercatrice della verità”.

Le citazioni dirette sono tratte da interviste a Louise Bourgeois, dal documentario “Louise Bourgeois: The Spider, The Mistress, The Tangerine” (Zeitgeist Films 2008), da interviste alla regista e critica Amei Wallach, a Jerry Gorovoy, assistente di Bourgeois, al figlio dell’artista Jean-Luis Bourgeois. Per approfondire, tutti i materiali sono accessibili liberamente su YouTube:

  • A Prisoner of My Memories: Louise Bourgeois | HENI Talks
  • Louise Bourgeois – ‘I Transform Hate Into Love’ | TateShots
  • The Artist’s Lens: Conversation with Amei Wallach, Director of “Louise Bourgeois: The Spider, The Mistress, The Tangerine”(Zeitgeist Films 2008)
  • Jerry Gorovoy on ‘Spider’ by Louise Bourgeois
  • Louise Bourgeois – Peels a Tangerine ZCZ Films
  • Amei Wallach at Garage. Louise Bourgeois: The Spider, the Mistress and the Tangerine
  • Haus der Kunst – Film della mostra su Louise Bourgeois. Strutture dell’esistenza: le cellule”. Casa dell’arte, 27.02 — 02.08.15
  • How Louise Bourgeois Confronts the Past through Sculpture | Art21 – from the “Identity” episode in Season 1 of the “Art in the Twenty-First Century” series premiered in September 2001 on PBS.